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"Prima che sia troppo amarti" di Annalisa Teggi

    Il Timone editore, 2024, pagg. 188.   Incipit "Se l'era cercata. Diana correva al buio pensando ai commenti sul suo necrologio. Non staccava gli occhi dall'unica luce davanti a sé. Aperti h24, un'insegna così anonima di giorno. Arrivarci, presto. Sentiva ancora addosso il fiato di alcol e sudore. Una voce roca era rigurgitata fuori da un angolo della strada. Un'ombra viva, arrabbiata o isterica si era sollevata da terra spalancando le braccia verso di lei. Un forte colpo a terra e una risata cavernosa. La stava rincorrendo?  O era rimasto in quel cantuccio nero di marciapiede?".   Pensieri luminosi Nel vocabolario   la parola "troppo" è sia un avverbio che un aggettivo e in entrambi i casi la definiscono come una quantità eccessiva, qualcosa più  del dovuto, più del giusto.  In definitiva sia che lo si qualifichi come avverbio o aggettivo, "troppo" ha un connotazione negativa e lo si può affiancare allo spreco come quello alimentare; o...

"Alma" di Federica Manzon

 

Narratori Feltrinelli, 2024, pagg. 267.


Incipit

"Ad aprile sono poche le barche che fanno la spola dalla terraferma all'isola. Lei cammina nel paese chiuso: una donna con gambe da cicogna e rughe ai lati degli occhi azzurrini come chi è cresciuto in una città ventosa, se ne va in giro sola tra case di vacanza disabitate, qualche facciata sfoggia una bandiera della Dinamo Zagabria appesa ai fili del bucato, qualche altra un muro decorato da fori di proiettile. Alma alza gli occhi verso il campanile e vede un gabbiano che si granchisce le ali. Stamattina ha telefonato all'albergo sull'isola, ha chiesto se era possibile prenotare una camera. É possibile, le hanno risposto con riluttanza. Sono cambiati i tempi ma l'isola conserva la sua scortesia".


Pensieri luminosi

Quando si nasce ci viene subito dato un nome, per avvertire il mondo che ci siamo anche noi, nella nostra meravigliosa unicità. Il nome ci identifica, ci differenzia e piano piano dà consistenza e forma alla nostra futura personalità. Il nostro nome rende tangibile e concreto la nostra esistenza sulla terra. Quando qualcuno ci chiama col nostro nome sentiamo con tutto noi stessi di esserci, qui e ora. È come un abito che indossiamo e il materiale di cui è composto è una commistione di emotività, relazioni, princìpi, idee, intuizioni, corporeità, spiritualità,... 
Ed è proprio un nome che dà il titolo a questo romanzo di cui mi piace lasciare qualche pensiero, da condividere ancora una volta con voi. Una storia ricca di spunti e riflessioni, di eventi e ricordi di una Storia nella Storia. Un nome di donna, Alma e al contempo un nome di una città, Trieste. 
Alma ritorna nel capoluogo giuliano dopo quasi trent'anni per ricevere, suo malgrado, l'eredità di suo padre. Un uomo un tempo misterioso, sfuggente, che spesso si allontanava dal "di qua" italiano e andava, richiamato quasi come un canto di sirena, "di là", in una terra un tempo chiamata Jugoslavia. 
Un ritorno per lei alle origini, per ritrovare e ritoccare con mano le radici del suo essere Alma, il suo nome che riecheggia in un spazio e tempo dilatato dai contorni sfuocati. Alma che ha vissuto in quella Trieste multisfaccettata, in cui si potevano vedere e percepire i fasti del periodo austrungarico e al contempo respirare l'aria balcanica. 
Ed è così che ha percepito sè stessa un tempo, fra le infinite sfumature culturali e linguistiche che si insinuavano fra le strade della città sferzata dalla bora e in casa sua, dove ognuno raccontava un po' di sé e si identificava in un accento particolare triestino oppure dialettale di confine. Ed è lì, in quella persistente oscillazione, tra un confine e l'altro che l'autrice racconta della Storia, del generale Tito che Alma ha visto da bambina e di suo padre che, inizialmente spinto da quell'idea di libertà e fratellanza dei popoli, ha dovuto poi amaramente soccombere, perdendo fiducia a causa della sanguinosa guerra in Bosnia che ha cancellato e ridimemsionato nuovamente confini. 
Per lei il padre rappresentava un mistero che forse solo ricevendo quell'eredità riuscirà a disvelare. Ma un timore persistente, quel malinconico disagio esistenziale la fa temporeggiare. Mentre vaga per la città durante i riti pasquali ortodossi respira quello spirito balcanico che la città stessa le restituisce e allora rivede il porto vecchio, il caffè San Marco con le bevande alla viennese con la panna, la Pineta di Barcola, la mitica casa nel viale dei Platani dove abitavano i suoi nonni e il loro fascino mitteleuropeo, la casa sul carso e il ricordo di sua madre che andava alla "Città dei matti" e il volto sfuggente del dottor Basaglia. Trieste le parla, le sussurra di non aver più timore. Lei è Alma, e ora deve sapere e quella conoscenza, quel tutto lo riceve dalla mani di Vili, un uomo che un tempo lontano aveva soggiornato piccolino in casa di lei, portato dal padre, figlio di intellettuali serbi. Lui di Belgrado, lui che la osservava con occhi cupi, lei che nel tempo l'aveva amato e odiato, lui che annegava negli occhi azzurri di lei, lui che ha cercato si salvarla da sé stessa, lei che non l'ha desiderato. Alma e la sua identità, Alma chiamata da Vili, un nome soltanto che racchiude un'intera esistenza. 
Potrà la protagonista riappropriarsi ora completamente del suo nome, che è esistenza e destino? 
L'autrice con una scrittura altamente significativa, a tratto onirica e poetica dipinge caratteristica di una donna alle prese con la propria identità interiore, ma che rappresenta anche il desiserio dei popoli di avere una propria identità, peculiarità. Trieste la accoglie, le fa vedere quel suo lato materno che un tempo non vedeva e abbraccia come un padre il suo destino. Sì, è arrivato il momento di togliere il velo, lasciarlo cadere, metterlo in un angolo perché si deve vedere bene che è  sapere ascoltare. Alma entra dentro la sua irrequietezza del suo continuo vagare e resta. Riceve dalle mani di Vili un tesoro profondo e incommensurabile, che va ben oltre ciò che lei ha documentato come giornalista in quel tempo di guerra, oltre le foto drammatiche che Vili fotografo ha pubblicato sul giornali dell'epoca. Si tratta di qualcosa che non si può definire a parole; è un sentimento sì, è un diritto sì, un desiderio sì ma è anche oltre la memoria e il tempo, fa parte dell'umanità. C'è un prima e un dopo, un solco che forse le permetterà di ripartire. 
Durante la lettura ho immaginato un vento forte, come la bora che soffia spesso su Trieste, che come un respiro potente si infila nei polmoni e scuote la protagonista e forse le permetterà di connettersi finalmente con la sua realtà e accettarla. 
Che altro dire: romanzo consigliatissimo!!!


 La mia lampada ha illuminato questa frase:   
"Lei non saprebbe dire dove sta la sua appartenenza, neanche la sua città lo sa: si è pensata sempre parte di una nazione che non era la sua, immaginava l'Austria, sognava il regno degli slavi, e perfino la nazione garibaldina, ma poi è rimasta estranea a tutto  e soprattutto a sè stessa".

 
Gli oli essenziali da utilizzare durante la lettura:
tre gocce di lavanda e tre gocce di arancio da sciogliere nel bruciatore di essenza con candela bianca neutra, per ritrovare le proprie radici e riuscire a mettersi in pace con il mondo.
 
 
 
 
Un po' di luce sull'autrice
Federica Manzon (Pordenone, 2 ottobre 1981) è una scrittrice italiana. É laureata in Filosofia contemporanea. É stata editor della Narrativa Straniera a Mondadori e successivamente docente e responsabile della didattica presso la Scuola Holden di Torino. Collabora con varie testate giornalistiche e ha collaborato in passato con l'organizzazione del festival letterario Pordenonelegge. Attualmente è la direttrice editoriale di Guanda. 
Con "Alma" ha vinto il premio Campiello 2024.
 

Bibliografia essenziale
- "Come si dice addio", Mondadori, 2008;
- "Di fama e di sventura",Mondadori, 2011;
- "La nostalgia degli altri", Feltrinelli, 2017;
- "Il bosco del confine", Aboca, 2020.
 


La scrittrice Federica Manzon durante la premiazione del Campiello 2024




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