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"Case rosse" di Alberto Coco

  LuoghInteriori editore, 2023, pagg. 216. Incipit "Sono inginocchiato nel sedile posteriore della Fiat 1100 color verde oliva di papà. Mia sorella Olga si è sistemata al mio fianco nella stessa posizione. Attraverso il finestrino guardiamo l'ingresso del civico 9 di viale Monza. Mamma si è fermata a parlare con le cornacchie allineate davanti al portone d'ingresso. Stringe mani, abbraccia, si asciuga le lacrime. É un addio, il mio primo addio. Non so bene cosa sia.  Papà mi ha spiegato che è un saluto che fai quando poi non ti ti vedi più per tanto tempo. Mi farà male, ne sono sicuro. A me fa già male il ciao che dico a Dante la sera. Sembra far male anche a mia sorella: ha il labbro inferiore che tremola come un budino alla fragola. Se piange lei - lei che non piange mai - io piangerò almeno il doppio. L'addio mi riempie di vuoto, mi strige la gola con un nodo". Pensieri luminosi Vi è mai capitato di ascoltare una canzone e fra un ritmo e l'altro la mente ap

"Canne al vento" di Grazia Deledda


Edizioni San Paolo, 1997, pagg. 226.

 

Incipit

"Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi".

 

Pensieri luminosi 

Avete mai soffiato (scusate il gioco di parole) su un soffione?
Mi ricordo che in primavera, nei campi fuori  il mio paese, ne raccoglievo tantissimi e dopo aver fatto una specie di bouquet di sfere soffici, prendevo tutto il fiato in corpo e ci soffiavo sopra.
Improvvisamente si alzavano in aria decine di minuscoli bastoncini soffici, che nella mia fantasia bambina assomigliavano a degli ombrellini che prendevano direzioni diverse; si rovesciavano, alcuni precipitavano a terra ma altri, con il favore del vento, si allontanavano veloci e leggeri dietro le chiome degli alberi, come se quella brezza avesse tracciato per loro una traiettoria ben precisa.
Nel riflettere su questo romanzo la mia memoria mi ha fatto ricordare i soffioni, ma soprattutto il vento che si portava via i piccoli ombrelli, disperdendoli.
E un vento forte che mi ha scompigliato e mi ha arrrossato gli occhi l'ho sentito qualche giorno fa mentre mi trovavo in Sardegna, non proprio nei  luoghi di "Canne al vento" ma comunque ho in parte percepito le sensazioni e le visioni di un paesaggio altro, diverso dal quale di solito vivo.
Dopo i primi giorni torridi in cui "non si muoveva una foglia" ha iniziato a spirare un vento importante. Ho visto più di un negoziante alzare lo sguardo al cielo preoccupato e annusare l'aria. Il nostro albergatore ci ha avvisati che a breve il tempo sarebbe cambiato; il vento avrebbe portato un cambiamento imminente.
Ma quel vento non avrebbe spostato le rocce granitiche della Gallura, dalle sue spettacolari forme simili a giganti dalla corporatura massiccia, non avrebbe scalfito la costa frastagliata, mentre sentivo il vento insinuarsi fra i cespugli di ginepro e rosmarino e far dondolare bouganvilleas che lasciavano cadere qualche petalo come pioggia colorata.
La Sardegna in cui ho soggiornato mi ha regalato scorci magnifici di mare dalle infinite sfumature di smeraldo che si infrangeva con le sue onde, spinte ancora una volta dalla potenza del vento.
Un fenomeno atmosferico che ho ritrovato anche fra le pagine di questo romanzo che mi ha donato una sensazione sensoriale su cui riflettere.
Ho letto il  libro qualche tempo prima di partire, per entrare almeno un po' nelle suggestioni che le parole dell'autrice avrebbero suscitato in me.
Una dimensione deleddiana soprattutto e ancora una volta ventosa.
Un vento che in questa storia è metafora del destino che incombe su ogni personaggio.
Uomini e donne che come canne oscillano, scossi da sentimenti profondi dalle innumerevoli sfumature, sopraffatti, in una commistione di superstizione, profonda fede, orgoglio, dignità, espiazione.
Un mondo lontano nel tempo, raccontato quasi come in un sogno, realisticamente e al contempo poeticamente descrittivo in cui i personaggi sono immersi in una natura selvaggia, solitaria, oscura, pregna di rituali e credenze ancestrali, sensuale, affascinante, arida, complessa ma che trova la sua straordinaria preziosità nella orgogliosa dignità isolana, che si esprime al meglio in quel piccolo villaggio vicino Nuoro nei primi del Novecento.
Qui troviamo Efix, un contadino che, nella sua povera condizione di servo, si dedica al "poderetto" e dorme su un pagliericcio in una piccola dimora spartana. Inoltre è al servizio delle tre sorelle Pintor, zitelle quasi tutte ormai attempate, schiave un tempo di un padre-padrone che le limitava nel loro esistere. Una di loro, però, era riuscita a fuggire ed avere una vita libera.
Efix, un uomo di mezza età e con la salute precaria vive nella sua condizione misera, senza chiedersi troppi perchè, accetta il vento del destino della sua vita.
Ciò che però lo porterà ad osare, vedere un po' più lontano e forse sperare in una nuova partenza, soprattutto per le amate e decadute dame Pintor, è l'arrivo nel villaggio del figlio di Lia, quella figlia coraggiosa che attraversò il mare e si stabilì a Civitavecchia.
Ecco allora uno dei temi che affiorano tra le pagine del romanzo e cioè quello di avere radici o ali, quello strano coraggio di lasciare il  luogo natio, spezzando una catena oppure affondare le radici ancora di più in quel terreno di sabbia rossastra con il timore di vedere nuovi cieli.
Le ormai attempate sorelle vivono in una dimora ormai vetusta, con le crepe sul muro, vestite di scuro e dalle cui finestre arriva solo la penombra.
Non sono state come i soffioni dei denti di leone, non sono state sospinte lontano, ma si sono immerse con i piedi dentro la terra e hanno accolto il destino amaro, gli eventi, in una sorta di muto immobilismo.
Ma nel villaggio, oltre a loro, vive anche un emblematico gruppo sardo in cui le superstizioni, i rituali, le tradizioni antiche prendono forma in un sensuale e mitico affresco e in cui i folletti e le ombre dei morti bussano alle porte, per questo da tenere ben sprangate.
Un giorno il vento impetuoso della novità arriva al villaggio e ha il nome di Giancinto, il figlio di Lia, che viene dal continente ed Efix spera che il destino delle sue padrone possa cambiare.
Quel ragazzo agli occhi del contadino ha sicuramente la scaltrezza, la sicurezza per rianare i conti, ridare dignità a quelle donne.
Sarà così?
Ciò che è certo è che il vento di Giacinto ha un profilo strano che scuote e sconvolge il villaggio e i suoi abitanti e ne rimarrano in qualche modo e al contempo affascinati e intimoriti.
In mezzo a quella tormenta Efix cercherà di placarla iniziando un pellegrinaggio sull'isola, una speciale via crucis dell'anima per cercare di rimettere a posto le cose.
Ci riuscirà?
Il romanzo di Grazia Deledda mi ha coinvolto moltissimo per quel senso di incantato esotico ed esotismo che caratterizza il suo luogo di nascita.
I personaggi sono l'isola e l'isola si disgrega nel cuore di ognuno di loro, fra le pietre arse dal sole, la polvere che si solleva e sbatte sui visi smarriti e malinconici, negli sguardi orgogliosi e alteri, in burberi gesti e parole sgarbate che spesso sottendono il timore di amare, nella costanza di essere e nell'indefesso Efix che cammina fra sentieri di muri a secco in una sorta di percorso di redenzione, che porta con sè le sofferenze di altre tristi e dolorose esistenze.
Ma dietro i cespugli di ginepro c'è forse qualcosa un cui sperare, sempre che il vento-destino non abbia ancora qualcosa di diverso in serbo.
Sembrano tutti allora in attesa di una presenza o di una assenza che si palesa fra il fruscio degli alberi, dietro un'ombra sfuggente.
Allora in questo senso il romanzo si fa pure afflato filosofico, perchè pone in evidenza tematiche esistenziali come il chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, quale è il nostro destino, cosa significa espiare una colpa e in che modo uscirne cambiati o forse no, ma ancora una volta il disquisire sul fato che come il vento fa perdere ogni minima certezza e pone l'essere umano in balia del non sapere, se non quello di lasciarsi condurre da esso.
Un vento, non da ultimo, che ha la freschezza della novità e che si lascia sedurre dal continente, laciando aperta la porta principale.
Ciò che porterò con me oltre la lettura e le suggestioni è aver visto il rosso corallo del sole al tramonto, il colore scintillante delle violacciocche, l'ampio patio del piccolo borgo avvolto dalle ombre della sera e ascoltato la fisarmonica che suona malinconica fra una civiltà di inizio Novecento e che ho sfiorato con lo sguardo ma che si amplifica per sempre, in Grazia Deledda e nell'amore per la sua terra.

La mia lampada ha illuminato questa frase:
"Le par d'essere ancora fanciulla, arrampicata sul belvedere del prete, in una sera di maggio. Una grande luna di rame sorge dal mare, e tutto il  mondo pare d'oro e di perla. La fisarmonica riempie con i suoi gridi lamentosi il cortile illuminato da un fuoco  d'alaterni il cui chiarore rossastro fa spiccare sul grigio del  muro la figura svelta e bruna del suonatore, i visi violacei delle donne e dei ragazzi che ballano il ballo sardo. Le ombre si muovono fantastiche sull'erba calpestata e sui muri della chiesa; brillano i bottoni d'oro, i galloni argentei dei costumi, i tasti della fisarmonica il resto si perde nella penombra perlacea della notte lunare".
 
 
Gli oli essenziali da utilizzare durante la lettura:
tre gocce di lavanda e tre gocce di rosmarino da sciogliere nel bruciatore di essenze con candela bianca neutra, per stimolare la mente ad avere pensieri chiari e ricondurre sulla giusta strada le emozioni.
 
 

Un po' luce sull'autrice
Grazia Maria Cosima Damiana Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 - Roma 15 agosto 1936) quinta di sette figli, è stata una scrittrice italiana e ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1927 per "Canne al vento".
Il padre, laureato in legge, non esercitò la professione e si occupò di commercio e agricoltura giacchè era un ricco possidente e fu anche sindaco di Nuoro nel 1863. La madre era invece dedita alla casa e all'educazione dei figli. Dopo le scuole elementari, che Grazia frequentò solo fino alla quarta, fu seguita privatamente da un professore di italiano, latino e francese e poi porseguì la sua formazione da autodidatta.
Nel 1887 inviò a Roma alcuni racconti presso l'editore Perino sulla rivista "L'ultima moda". La scrittrice incontrò l'approvazione di letterati del tempo e collaborò con riviste sarde e del continente. Fu anche traduttrice per la versione italiana di opere francesi tra cui "Eugénie Grandet" di Balzac. Fu anche una donna dedita al sociale e insegnò lettere all'Asilo Lazio.
Nel marzo 1909 alle elezioni del Regno d'Italia il suo nome comparve nel collegio di Nuoro della Camera per il Partito Radicale Italiano che le creò polemiche sulla stampa nazionale.
Le sue spoglie si trovano presso la sua città natale, traslate dal cimitero del Verano a Roma dove inizialmente venne sepolta.
 
 
Bibliografia essenziale 
- "La via del male", romanzo (1896);
- "Elias Portolu", romanzo (1903);
- "Cenere", romanzo (1904);
- "Le colpe altrui", romanzo (1914); 
 "Marianna Sirca", romanzo (1915);
- "La madre", romanzo (1920)
- "Annalena Bilsini", romanzo (1927);
- "Il paese del vento", romanzo (1931);
- La chiesa della solitudine", romanzo (1936)



La scrittrice Grazia Deledda


 

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