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"Hypsas" di Valerio Mello.

 "Hypsas", Edizioni Ensemble, 2024, pagg. 55. "Incontro i morti sui margini dentati delle foglie, ospiti e pietrisco più brillanti - centellinando le veglie, perché i nomi vanno incontro a ciò che si ripete; e il sole di Eraclito è nuovo tutti i giorni. Quieta pulsione di ogni luogo, le acque sono tiepide e danno esile diadema, dolce fissità degli occhi ; morbide sculture sul bianco di parete accolgono corpi liberi"... Pensieri luminosi La raccolta di poesie di Valerio Mello è un percorso immersivo nella natura e del suo potere rigenerante, correlato però anche ad una visione particolare e aulica, quella delle antiche divinità che si trasformano  esse stesse in poesia. Un percorso di parole e immagini che come quadri astratti e simbolici accompagnano il lettore in una dimensione onirica. Ciò che mi ha maggiormente colpito è stato leggere della terra, di alberi, di erba, di pietre secolari che si intersecano nella millenaria conoscenza, con la civiltà del sapere. Una

"La neve di Mariupol" di Monica Perosino.



Paesi Edizioni, 2023, pagg. 192.

Incipit
 
"Alle 4:11 del 24 febbraio, ora italiana, faccio la telefonata più surreale della mia vita. Compongo il numero di Monica Perosino, sapendo di doverle dare una notizia devastante, assurda, impossibile. Sospetto che non ne sia ancora al corrente - il web viaggia più veloce della realtà sul terreno - e credo sia meglio la venga a sapere da me. Non voglio spaventarla. Vestiti e monta in macchina, le dico. E poi riesco a pronunciare l'impronunciabile, l'incredibile, l'insopportabile: stanno bombardando. É iniziata la guerra. 
Ciascuno di noi conserverà per sempre nella propria memoria quel momento. Ciascuno di noi ne avrà un ricordo sconvolgente, indelebile, nitido e verosimilmente falso".

 
Pensieri luminosi
 
Nel gennaio del 1985 in Pianura Padana ci fu una copiosa nevicata come non se ne vedevano da molti anni. A quel tempo io avevo otto anni e mi ricordo la soffice coltre bianca che si adagiava pian piano sul prato di casa. Non avevo mai visto tanta neve cadere in un paio di ore soltanto ed ero piacevolmente stupita ed elettrizzata.
Io e mio fratello ben vestiti e con stivaletti da neve ancora intonsi, ci siamo immersi in quella natura invernale così inusuale dalle nostre parti. Ricordo la felicità di quei momenti in cui impastavamo tanto ghiaccio per fare il mitico pupazzo di neve, con tanto di bottoni per gli occhi, una sciarpa legata al collo e al pancione, costruito con una palla bella grande, gli abbiamo appiccicato tanti brillantini di porporina rossa e blu per renderlo ancor più luccicante. Per me quella giornata innevata era iniziata bene. La mia amichetta del cuore al mattino a scuola mi aveva regalato un braccialetto fatto di spago che era a tutti gli effetti a quell'età un dono prezioso, un tesoro da custodire nel tempo. Mi ricordo che lo indossai subito e lo tenni anche nel pomeriggio. Mentre ci lanciavamo palle di neve e le nostre grida gaie si spandevano nell'aria in un silenzio assoluto, la neve aveva ripreso a cadere a buon ritmo accompagnata da un vento freddo. La mamma a quel punto fece capolino alla finestra per invitarci a rientrare in casa. Alzai il braccio ad indicarle la nostra opera d'arte ghiacciata e mentre lo facevo mi accorsi con terrore che il bracciale al polso non c'era più. Piombai subito nella disperazione e mi arrabbiai tantissimo con mio fratello. Era stato sicuramente lui mentre ci spingevamo sulla neve a farmelo perdere, o mentre mi davo da fare con le mani a costruire il pupazzo di neve, o quando ci lanciavamo con vigore le palle di neve in faccia magari si era slacciato senza che me accorgessi. Non lo seppi con esattezza; quello che sapevo era che il mio bellissimo bracciale era sepolto nella neve, un tesoro nascosto sotto quello strato soffice, di un bianco accecante.
Ancora una volta, come mi capita spesso, il titolo di un libro mi ha aperto un casetto della memoria e al contempo mi consente di fare delle riflessioni. 
"La neve di Mariupol" della giornalista e scrittrice Monica Perosino racchiude in sè tutta una varietà di emozioni indimenticabili. La sua è una narrazione intima, che svela il più profondo sentire di una nazione composta da persone, uomini, donne, bambini, anziani e non il Paese da classificare per i suoi confini, un po' più ad oriente, spostato più ad occidente o rappresentato con una fredda e asettica carta geografica. Il libro, al contrario è imbastito di relazioni umane, vive di continue voci di chi lotta, che sente fino in fondo il patriottismo agito e non a parole, definisce il sacrificio con i fatti, si immola per una causa giusta.
Tutto è iniziato in un giorno di febbraio, con l'inverno freddo e pungente e la neve che cadeva. La giornalista si trovava a Dnipro quando sono iniziati i primi bombardamenti e, con una Renault scassata, ha attraversato i territori martoriati ad est dell'Ucraina e ha incontrato persone che per sopravvivere si nascondevano nei rifugi, fra le pareti delle metropolitane, in angoli bui e umidi di una cantina o semplicemente nelle loro umili abitazioni. E quando la neve cade con determinazione copre tutto; silenziosamente nasconde tesori umani, con le loro storie, i loro destini, le loro scelte i loro convincimenti, le loro paure, ma soprattutto con l'orgoglio di essere ucraini, di sentirsi parte di una nazione sofferente, dilaniata, offesa "dall'uomo con la cravatta color vinaccia" e col desiderio di riscattare quella situazione con una resistenza vibrante e sincera.
Ed è in queste pieghe dell'esistenza che l'autrice racconta, al di là dei resoconti di guerra che come cronista deve  darne testimonianza. Ma in lei avviene una specie di stop spazio-temporale e così ascoltiamo il cuore pulsante dell'Ucraina, battiti che si fanno più veloci, che rallentano o saltano un colpo per la paura, la rassegnazione, il dolore, la violenza. Ci racconta, paradossalmente della pace, nostante i carri armati distruggano ogni cosa, mietono la morte; nonostante gli echi delle bombe creino annichilimento, incubi notturni. L'autrice ci offre il resoconto di un miracolo, in quell'iperbole umana di cui ne racconta l'esistenza. Una scrittura che diventa armonica poesia tra il folklore delle vesti che tante donne anziane indossano, in quelle tradizioni culinarie che vengono offerte alla stessa giornalista, in quel pudore e gentilezza dell'essere lì e ora nel baratro della fine, ma nonostante tutto vive e non si rassegna. Ospitali nelle loro piccole dimore si fanno consolatrici loro per Monica, pacifiche nella belligeranza. L'autrice racconta piccoli brandelli di vita e li dona a noi lettori, preziosi sussurri che si fanno confidenza, tenue gioia di vivere o il timore di un addio. Nel suo racconto l'autrice rivolge uno sguardo candido e puro come la neve, elogiandone la purezza del loro istinto di sopravvivenza, tra un vuoto che non si può più colmare ma che ha amplificato saggezza, gentilezza che nella precarietà di una guerra diventano gesti di infinito amore.
E allora è altamente significativo l'incontro straordinario della giornalista con la ottuagenaria babushka, fra il tepore di una casa che conserva tutto ciò che l'Ucraina desidera avere: calore, tradizioni, accoglienza, cibo, affetti, pace.
In quello spazio piccolo di una casetta l'autrice mi ha consegnato un quadro, un fermo immagine ricco di infinite sfumature, riflessivo. 
Lei si è immersa in una cultura altra, ne ha percepito l'essenza con tutti i sensi; l'ha odorata in quelle sigarette all'anguria che fumava nei momenti più tesi, l'ha ascoltata fra le urla mute e i silenzi assordanti della popolazione in fuga, l'ha caricata sull sue spalle con il giubotto antiproiettile che sapeva di sudore, fatica, di vita dura e pericolosa.
In un territorio privo di rilievi montuosi le montagne metaforiche della guerra rimangono purtroppo ancora lì, altissime, ripide, pericolose. Non è ancora arrivato il momento di scenderle, di trasformarle in dolci colline che si propagano verso la pianura e scenderle col cuore più leggero, ma provate a leggere le storie raccontate in questo libro e potrete così scorgere fra quella neve tesori di vite che hanno il desiderio solo di essere riconosciute e ascoltate, simbolo di identità nazionale.
 

La mia lampada ha illuminato questa frase:
"Zhenya indossa il suo platok della festa a grandi fiori fucsia annodato sotto il mento, un vestito nero di lana spessa, gli scarponi imbottiti e un gilet a motivi geometrici grigio e nero. Si è cambiata per noi. Si è messa elegante per gli ospiti. Guarda la macchina fotografica che Giorgio ha appesa al collo, appoggia la mano destra sul fianco e con un ammiccamento malizioso che la fa sembrare una ragazzina lo invita a scattare".


Gli oli essenziali da utilizzare durante la lettura:
tre gocce di pompelmo e tre gocce di cannella da sciogliere nel bruciatore di essenze con candela bianca neutra, per ritrovare la forza e riattivare l'interiorità.

Un po' di luce sull'autrice
Monica Perosino è una scrittrice e giornalista italiana, originaria di Torino, città nella quale vive.


INTERVISTA ALL’AUTRICE

Ciao Monica e benvenuta nel mio spazio letterario. Vuoi parlarci un po’ di te?

Con il rischio di sembrare scontrosa, mi limiterei all’essenziale: sono nata a Torino e da 23 anni sono una giornalista della Stampa. Dopo una lunga esperienza in Cronaca locale, a macinare chilometri e consumare suole, dal 2013 sono in quello che in gergo chiamiamo settore Esteri. Da allora macino chilometri e consumo suole allo stesso modo, ma in lingue diverse e mondi lontani, che poi, alla fine, lontani non sono mai davvero. Per il giornale mi occupo da sempre di Europa centrale, Ucraina, Baltici e Paesi nordici, Ungheria e Polonia, con un’attenzione particolare ai diritti civili. Dal 24 febbraio 2022, mio malgrado, sono anche un’inviata di guerra. Sono laureata in Filosofia, adoro la Svezia, i libri sopra le 250 pagine e i sonnellini al pomeriggio, che fingo essere momenti di riflessione.
 
Come è nata l’idea di trasformare la tua testimonianza in un libro?
Se non fosse stato per la mia amica e collega Anna Zafesova, esperta di Ucraina, Paesi post-sovietici e Russia (e di un sacco di altre cose) non credo avrei nemmeno iniziato. Poi, quando ho iniziato a scrivere La neve di Mariupol mi sono resa conto che raccontare l’orrore che avevo visto e rendere onore alle persone che avevo incontrato mi avrebbe aiutata a elaborare quello di cui ero stata testimone. Il fatto di trovarsi in Ucraina prima dello scoppio della guerra, nell’istante in cui è scoppiata e poi ancora nei mesi successivi, è un’esperienza straordinaria che doveva essere raccontata. Ma al di là del dovere del testimone, sono il senso di colpa, la rabbia e il classico dolore del “sopravvissuto” ad avermi spinta a voler rendere onore al coraggio delle persone che ho incontrato, alle loro storie e alle loro voci. Le ho in qualche modo “liberate” dalle rigidità degli spazi e del linguaggio giornalistico e, in questo modo, spero di averne restituito la complessità e la bellezza. Molti di loro non ci sono più, tutti gli altri stanno ancora soffrendo di un dolore indicibile. Averli con me tra le pagine di un oggetto fisico come un libro mi fa sentire meglio. Scrivendo senza limitazioni di spazio, e potendo includere le mie emozioni nel racconto, ho l’impressione di essermi avvicinata un po’ di più a loro, alla realtà delle persone “piccole” e delle cose quotidiane precipitate in un evento così estremo come una guerra. Quelle persone, così normali, così vicine all’idea di <noi>, spesso rimangono sullo sfondo dei grandi eventi della Storia e della storiografia, ma sono convinta che ne siano l’essenza autentica. Per questo ho volutamente scelto di raccontare le vite che di solito non fanno notizia, le persone che non compiono eclatanti gesta eroiche, che non avranno mai un monumento in una piazza o il proprio nome scritto in un libro. È il mio contributo, seppur infinitamente piccolo, alla loro battaglia e alla cronaca di una guerra vista per quello che è, un evento irrazionale e mostruoso. Spero, in questo modo, di gettare dei semi-anticorpi in più persone possibile, così che l’idea stessa di una guerra sia talmente ripugnante da diventare inconcepibile.

 

Perché hai scelto questo titolo?

Chi leggerà il libro capirà perché la neve, in un Paese in guerra, è molto più che un evento metereologico romantico e fiabesco. In questo preciso contesto è anche una fonte di vita. A Mariupol, e non solo lì, ha salvato migliaia di persone che la usavano per bere e cucinare quando le infrastrutture idriche sono state distrutte dai bombardamenti. Mancava la luce, il gas per scaldarsi, ma almeno si poteva bere la neve sciolta. Inoltre, nei due inverni ucraini dall’inizio dell’invasione, la neve ha anche coperto per qualche settimana la totale devastazione delle città e dei villaggi in macerie. Per qualche effimero momento si poteva pensare che sotto quella coperta bianca le strade, i palazzi, le case non fossero stati sventrati dai missili e anneriti dagli incendi, che tutto fosse come prima. Sembra poco, ma non lo è.   

 

Da cosa ti sei lasciata ispirare per l’immagine di copertina?
La bellissima copertina è merito dell’editore e dell’art director, che mi hanno sopportata a lungo cercando di tradurre in immagini idee astratte, ricordi e sensazioni. Poi Anna Zafesova mi ha fatto conoscere le opere del fotografo Danila Tkachenko e i pensieri si sono trasformati in visioni. A lui e alle sue incredibili immagini ci siamo ispirati.
 
La dedica del tuo libro è a Wilma, Lia ed Emma. Sono persone importanti per te?
Mamma, nonna e bisnonna. Sono persone importanti perché sono donne diversissime una dall’altra, ma ognuna di loro mi ha insegnato una forma diversa di essere donna e un modo diverso di essere forte. 
 
La citazione che hai scelto per introdurre il tuo lavoro è della scrittrice e giornalista bielorussa, ma nata in Ucraina, Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura nel 2015 e recita così: “Sono stata definita scrittrice delle catastrofi; ma non è vero, io cerco continuamente parole d’amore. L’odio non ci salverà. Solo l’amore. È la mia speranza”.Come mai hai scelto questa autrice e proprio quelle parole?
Svetlana Aleksievic è immensa. Sceglierei lei, le sue parole, i suoi occhi per descrivere qualsiasi cosa, anche la ricetta della pasta al forno. Leggendo i suoi libri, durissimi, la riconnessione con il sé autentico e con il mondo è così profonda da far venire le vertigini. Lei è l’esempio più fulgido di narrativa documentaria, talmente potente da trasformare tutto in poesia, ma con la forza della verità. Ho scelto la sua frase come esergo del libro perché, ancora una volta, dava una risposta alle mie paure: non volevo in alcun modo che La Neve di Mariupol fosse un libro nichilista, senza speranza, perché non è quello che ho vissuto in Ucraina, che anzi è sorretta dalla speranza e dall’amore. Quindi, come Svetlana insegna, nemmeno la guerra può distruggere l’amore, bisogna solo volerlo cercare e saperlo vedere.

Il tuo libro è la testimonianza di una guerra che va avanti da più di un anno. Se dovessi ricordare solo un momento di quella esperienza, qual è quello che ti è rimasto più impresso?
È difficilissimo scegliere solo un momento, tenterei una trattativa per due… Uno è l’orrore e il terrore quando ho sentito cadere la prima bomba, vicinissima. L’altro è la mano calda e deformata dall’artrosi di una babushka di Bakhmut. Stritolava la mia per farmi coraggio, mentre mi infilava nello zaino un tubo di biscotti Marja. Stava lì, con il suo fazzoletto in testa davanti alla sua casa sventrata, si nutriva da giorni con i pacchi di aiuti umanitari, dormiva a 500 metri dalla linea del fronte, ma si preoccupava per me, che mangiassi e non avessi paura. Ne ho incontrate a decine come lei…
 
Perché hai scelto di fare la giornalista?
In realtà mi è capitato… Sarebbe più bello raccontare che è stata una vocazione sin dall’infanzia, che il fuoco sacro del giornalismo ardeva nella mia anima, e che l’urgenza della scrittura mi divorava. In realtà sapevo solo che cosa non volevo fare. In cima alla lista c’era svegliarmi alle 7 di mattina, lavorare stretta tra quattro muri e dedicare la mia vita a qualsiasi attività avesse come scopo principale quello di fare soldi. Quindi eccomi qua, appena tornata dalla Svezia. Insegnavo inglese in una scuola privata e mi annoiavo molto. Alla fine ho letteralmente bussato alla porta di Gabriele Ferraris, oggi al Corriere, ma per sempre inventore di TorinoSette de La Stampa. Sorprendentemente non mi cacciò, anzi, mi prese come collaboratrice del giornale. Oggi diremmo free lance, allora si diceva abusivo. Fu sempre merito suo se dopo cinque anni di gavetta mi assunsero con un contratto stabile. E stato grazie a lui, e al primo pezzo su un mercato rionale, che ho scoperto che avevo trovato la vocazione che non sapevo neanche di avere. Quando ero piccola sognavo di fare la scrittrice, l’esploratrice o la detective: il giornalismo tiene insieme tutto.
  
Cosa significa per te scrivere?
Una grande fatica.
 
Hai altri progetti in cantiere?
Sì, ho un’altra storia che sento di dover raccontare. Non ha ancora una forma definita, ma non parlerà di bombe, almeno non direttamente. E anche qui, nonostante tutto, spero ci sarà ancora lo spazio per la speranza.
 
Grazie per aver condiviso le tue riflessioni.
Grazie a te.
 
 

 La scrittrice Monica Perosino

 

 

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