"Hypsas", Edizioni Ensemble, 2024, pagg. 55. "Incontro i morti sui margini dentati delle foglie, ospiti e pietrisco più brillanti - centellinando le veglie, perché i nomi vanno incontro a ciò che si ripete; e il sole di Eraclito è nuovo tutti i giorni. Quieta pulsione di ogni luogo, le acque sono tiepide e danno esile diadema, dolce fissità degli occhi ; morbide sculture sul bianco di parete accolgono corpi liberi"... Pensieri luminosi La raccolta di poesie di Valerio Mello è un percorso immersivo nella natura e del suo potere rigenerante, correlato però anche ad una visione particolare e aulica, quella delle antiche divinità che si trasformano esse stesse in poesia. Un percorso di parole e immagini che come quadri astratti e simbolici accompagnano il lettore in una dimensione onirica. Ciò che mi ha maggiormente colpito è stato leggere della terra, di alberi, di erba, di pietre secolari che si intersecano nella millenaria conoscenza, con la civiltà del sapere. Una
Morellini editore, 2022, pagg. 137.
Incipit
"Caro amore,
tra poche settimane me ne andrò. Lo dico senza crederci, perchè spero ancora che tu mi dirai che non c'è motivo di lasciarti o di lasciare questi posti. O se invece c'è bisogno di un luogo diverso per iniziare di nuovo. Vorrei poter ricominciare, e quando lo penso mi appari già così lontano da non poterti afferrare. Sono due mesi che non ci vediamo e questo tempo sottile che ci separa sembra aver già creato distanze impercorribili. Quanto dovremo aspettare per dimenticarci e ricominciare? Eppure, credo che quel che ci ha legati non si perderà ma si modificherà, prenderà altre forme, e mi chiedo quali io sia disposta ad accettare".
Pensieri luminosi
Quando ho letto il titolo di questo romanzo, per associazione di idee, ho ripensato al sito archeologico di Roselle, nel grossetano, una delle dodici città-stato di origine etrusca che ho visitato anni fa.
Mi ricordo che appena arrivata ho provato un grande stupore. Il sito ricopriva una vasta area e mi ha rimandato subito, prima di ascoltare dalla guida le tante notizie, la magnificenza di una civiltà del passato.
Ho memoria che su una superficie di circa due chilometri ho potuto osservare delle mura a secco molto ben conservate, il perimetro di quelle che un tempo dovevano essere le terme e le testimonianze di alcune botteghe, così come i caratteristici lastroni di sasso piatti che formavano le strade etrusco-romane, i resti dei luoghi di culto e alcune parti di templi sacri del periodo e molto altro ancora.
Sono partita da questi ricordi per riflettere sul fatto che Roselle è una meravigliosa testimonianza di una "bellezza rimasta", cioè quell'insieme di reperti provenienti dal passato che rifulgono della loro affascinante bellezza e che sono testimonianza, nella loro parziale interezza, nella millesima parte della loro grandiosità, del popolo estrusco che ha abitato quel luogo, della loro intelligenza e creatività. Una bellezza luminosa proprio perchè frammentata dal procedere dei secoli inesorabile, ma proprio per questo, di ciò che resta, dobbiamo farne tesoro prezioso da proteggere e custodire. Ci permette inoltre di fare congetture, ipotesi; i resti raccontano di una bellezza rimasta che deve essere in qualche modo compresa, di-svelata, raccontata.
Una bellezza che ha i connotati dell'armonia, di una sublime perfezione che si interseca nelle infinite strade dell'essenza esistenziale, di quello che era e di quello che verrà.
Un concetto di bellezza rimasta ma di tutt'altro genere, l'ho potuto ritrovare anche nel romanzo di Roberta Zanzonico, appunto La bellezza rimasta.
Il libro infatti è percorso da una felice bellezza che ha i connotati di un sito archeologico, ma mentre quello di Roselle è concreto, tangibile, quello che caratterizza i personaggi della vicenda è chiuso dentro le nebbie fitte delle loro menti, nel quale crogiolarsi finchè si può, per annegare in una felicità apparente, effimera, forse nemmeno esistita, ma fatta nascere, creata per lenire un dolore lancinante, una sofferenza indicibile che punge ad ogni ora di ogni maledetto giorno.
I loro ricordi piacevoli li possiamo metaforicamente trovare incastonati in un anello antico, in una pietra levigata, in una colonna con foglie d'acanto di un tempio etrusco.
Tra le stradine di un sito archeologico dei ricordi possiamo trovare Chiara, settantenne di Filaccione, da circa dieci anni colpita da un decadimento cognitivo causato da un abuso di alcol e che non riesce più ad attraversare l'orizzonte di pensieri nuovi, imminenti, ma ricorda solo il passato fermo a dieci anni prima.
La sua situazione così complessa permette (suo malgrado e in maniera del tutto inconsapevole) paradossalmente ad alcuni suoi conoscenti di ritagliarsi dei momenti felici in sua compagnia. E così come io ho attraversato serena quel sito archeologico, così i personaggi della storia sono altrettanto gioiosi di ripensare a dei loro momenti, ai loro "reperti" di un tempo trascorso, con stupore e gioia.
Con la signora Chiara chiacchierano amabilmente e si aggrappano con tutte le loro forze ad un ricordo struggente che possono quasi ri-toccare con mano, tanto da sembrare reale, o non lo era veramente?
L'anziana donna infatti non ricorda nulla, ad esempio, di Gioacchino, della sua pazzia, ma al contrario ne serba un ricordo positivo quando la malattia non lo aveva ancora intaccato, giovane e bello e così il padre, il signor Morbidelli, si crogiolerà in quella nebulosa rosea senza tempo, in cui però si sente bene, avvolto da un tepore che anestetizza. Allora è bello fermare il tempo in quegli anni sereni, dove tutto era semplice e il buio era lontano. Sì, perchè la non-memoria della settantenne e le sue parole che descrivono una bellezza di eventi, momenti trascorsi che però non sono più, permette di vivere in un eterna beatitudine e questo è ancor più sconvolgente, perchè le persone che si recano da lei lo fanno coscientemente, perchè la lacerazione del dolore brucia come il sale su una ferita viva; vogliono ricordare per dimenticare, dimenticare per ricordare schegge di attimi, minuscoli passaggi di vita, briciole d'eternità prima del baratro.
Suonano alla sua porta, siedono con lei al suo tavolo e si raccontano, si liberano, si disvelano, impauriti nell'affrontare il presente e allora volgono lo sguardo indietro, al rassicurante ricordo di Chiara e alla e sue parole gentili.
L'autrice pone in evidenza una tematica interessante, cioè quello relativa all'esistenza, di ciò che rimane di essa nel tempo di ciascuno di noi, di quello che vogliamo ri-pensare, trattenere, delle decisioni, delle scelte, ma soprattutto quale vita progettare, centellinando ogni momento che diventa prezioso come fosse l'ultimo del nostro esistere.
Allora ecco Chiara che, a dispetto del nome che porta, non riesce a comprendere con chiarezza la sua vita, si trova a tessere trame antidolorifiche; lei diventa la medicina che fa guarire, ma è solo un effetto placebo, un'autosuggestione. I personaggi che interagiscono con lei si autoconvincono che quella "cura" sta diventando efficace; la medicina si può assumerla ogni giorno ed è l'anziana che ne definisce la posologia.
Mettendo sul piatto i momenti felici prima della disgrazia, registrando quella nota che si inceppa e ripetendola all'infinito si apre uno squarcio, un lampo nel cielo terso. Ma è tutta un'illusione, un muro di cinta antico apparentemente solido, ma che si sta già disgregando.
Anche Chiara porta con sè il suo dolore e cerca in qualche modo di affrontarlo nella sua più completa confusione andando e tornando, con il pensiero, con le gambe verso una stazione, ad un treno che forse non prenderà mai.
E c'è poi la città immaginaria di Filaccione che osserva ghignando e sussurrando maldicenze, insinuando e alludendo su quella strana compagnia di personaggi che rincorrono il passato.
Colui che guarda con disicanto e poche parole quella particolare situazione è il marito di Chiara, il signor Antonio. Vede quell'andirivieni di donne e uomini che si abbeverano alle labbra di sua moglie, labbra che lui non ha mai praticamente accostato alle sue; baci che non le hai mai donato e agirà a par suo ponendo una rottura, una fenditura come quelle che si formano dopo un violento terremoto.
La scrittura dell'autrice scava nel profondo; è una penna che narra l'infelicità raccontando di felicità. Il suo sguardo scruta, analizza il dolore, lo guarda in faccia. Ci narra della immensa solitudine di figure incomprese, strette tra parole non dette, in gesti inconclusi, di sguardi dolenti, che ad un certo punto per alcuni diventeranno cechi ma, paradossalmente, proprio per questo motivo torneranno a vedere, come sciolti da un incantesimo.
E allora sì, c'è qualcosa che rimane pur nel malessere quotidiano, nella solitudine dell'anima, nella fatica di lenire il pungente dispiacere, l'amarezza, la disperazione. Nelle pagine strappate della loro vita, accartocciate, ingiallite dal tempo si intravede la scheggia rilucente di un io che grida vita da custodire e proteggere.
"E poi un giorno ho capito. Ho capito che non si dimentica, ma si impara. E chissà perchè si impara con ritardo, che non si ritorna dove ci hanno spezzati. Si ricomincia. Si prendono i pezzi, li si mettono assieme, e così, un po' rotti e un po' goffi, ci si offre di nuovo. Ma questa volta senza rancore. Questa volta perdonando. Si cambia".
tre gocce di arancio e tre gocce di tea tree da sciogliere nel bruciatore di essenze con candela bianca neutra, per allentare la tensione nervosa e purificare la mente da situazioni in cui non ci sentiamo adatti.
Roberta Zanzonico (Velletri, 11 gennaio 1986) è una scrittrice italiana. Psichiatra originaria di Rocca di Papa, in provincia di Roma, nel 2020 presso la UCLA, Università della California di Los Angeles, è diventata insegnante alla facoltà di Medicina e nel Dipartimento di Psichiatria.
Bibliografia essenziale
- "Blu Stanzessere", (2019) romanzo;
- "Agnese", (2020) racconto;
- "L'Azione", (2020) racconto;
- "El Niño", (2021), racconto.
INTERVISTA ALL'AUTRICE
Ciao
Roberta e benvenuta nel mio spazio letterario. Vuoi parlarci un po’ di te?
Sono un medico psichiatra e ho vissuto buona parte della mia vita
adulta negli Stati Uniti. Sono appassionata di libri, musica e viaggi. Mi piace
leggere e studiare, la mente mi affascina e non smetto mai di imparare. Oltre
alla scrittura e la medicina, una mia grande passione è la musica. Suono il
pianoforte, per un po’ ho suonato il sassofono e negli ultimi anni ho
cominciato anche a cantare. Passo molto del mio tempo ad ascoltare musica dal
vivo e creare playlist su Spotify. Sono un’accanita viaggiatrice.
Come
è stata la genesi del tuo romanzo?
Il romanzo parla di una donna di settant’anni che da ormai dieci anni
non riesce a formare nuove memorie. La patologia ha un risvolto inatteso:
permette, a chi parla con lei, di tornare indietro ai giorni in cui la vita era
sembrata gentile. Il passato diventa quindi un luogo di evasione dalla realtà.
Potrebbe sembrare un modo per raggiungere felicità (come suggerisce la
copertina), eppure il ricordo si svela un rifugio precario in quanto alimentato
più dall’illusione che non dalla realtà. Molti degli spunti vengono dalla mia
professione: mi sono interfacciata con pazienti affetti dalla stessa sindrome
di cui soffre la protagonista, ma ho anche incontrato tante persone nostalgiche
e incapaci di vivere nel presente. La nostalgia è qualcosa che conosco bene
dopo aver vissuto molti anni fuori dall’Italia. L’idea di rimanere fermi nel
passato risale invece agli anni dell’università. All’epoca, mi innamorai e poco
dopo vidi quella breve relazione finire. Un giorno entrai in un bar, ancora
scossa dalla fine recente di quell’amore, e un ragazzo al bacone mi chiese
“sola oggi?” (implicando che non ero con il giovane uomo con cui mi aveva visto
fino a pochi giorni prima). Per un momento, ho pensato che avrei potuto mentire
e rispondere che non ero sola, che lui mi aspettava fuori, che non era cambiato
nulla, che quell’amore non era finito, che io ero rimasta ferma ai giorni
felici. Non riuscii a dire nulla, ma fu allora che ebbi quest’idea che poi ho
ripreso nel romanzo, ossia che se c’è anche solo una persona che crede ancora
in una realtà (seppure perduta), allora quella realtà potrebbe esistere
nuovamente anche per qualcun’altro.
Da
quali suggestioni sei partita per creare il titolo?
Il
titolo riprende una frase del libro. La protagonista è con la memoria ferma al passato
e alla “bellezza lì rimasta”.
L’immagine
di copertina intitolata “Erasing herself”
è di Roberta Coni, rinomata pittrice romana, interessata alla rappresentazione
della figura umana attraverso l’utilizzo di diverse tecniche. Come mai hai
scelto proprio questa immagine?
Conosco
Roberta Coni dall’adolescenza. Ho sempre sognato di pubblicare un romanzo con
una sua opera in copertina. Quando la casa editrice ha accettato di usare Erasing
herself, per me si è avverato un sogno. La donna ritratta nel quadro è la
nonna di Roberta. Mi piaceva molto l’immagina di una signora anziana con la mente
obnubilata, proprio come la protagonista del mio romanzo.
La
citazione di Kundera, tratta da “L’ignoranza”, che hai scelto per introdurre il
tuo libro, recita così: “Più la loro
nostalgia è forte, più si svuota di ricordi. Più Ulisse si struggeva, più
dimenticava. Perché la nostalgia non intensifica l’attività della memoria, non
risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è
dalla sofferenza”. Come mai ti sei soffermata su queste parole proprio di
Milan Kundera?
I
personaggi del mio libro si rifugiano in un passato che a poco a poco diventa
sempre più fantastico. Le parti negative vengono epurate, quelle positive
idealizzate, tanto che quello ricordato diventa un passato che probabilmente
non è mai esistito. Paradossalmente, “più la loro nostalgia è forte, più si svuota
di ricordi”, proprio come nella frase presa da questo romanzo letto molti anni fa.
Che
significato puoi dare alla parola bellezza?
Nel
romanzo, si parla alla bellezza del tempo passato, quella a cui si guarda con nostalgia
e tenerezza.
Alcuni
dei protagonisti della storia tendono a vivere in una effimera felicità passata
piuttosto di affrontare la realtà, per quanto brutale. Secondo te quanto coraggio
ci vuole per affrontare la quotidianità nonostante le difficoltà del vivere?
Sicuramente
molto. A volte è più semplice semplificare, ridurre la realtà a un bianco e
nero dove è facile prendere posizioni. Io credo che quando scrutiamo la realtà
più da vicino, capiamo che è difficile semplificare e ancor più emettere
sentenze. I personaggi del mio romanzo sono persone umane, con le loro
vulnerabilità e i loro lati meno piacevoli, eppure penso sia difficile giudicarli,
tutti sembrano vittime di sé stessi, si prova compassione più che astio. Forse
vivendo una vita più compassionevole e sapendo perdonare si potrebbe trovare il
coraggio di vivere la quotidianità nonostante le sue difficoltà.
Il
romanzo è costellato di ricordi per lo più dolorosi per i protagonisti, ma per
un personaggio anche felici. Se dovessi ricordare tu un momento felice della
tua vita quale sarebbe?
Ce
ne sono molti, uno però l’ho messo nel romanzo. A 19 anni mi ritrovai un’estate
a casa di amici dell’università, e del ragazzo di cui ero innamorata all’epoca,
e non ricordo bene come iniziò ma ci mettemmo a fare i gavettoni dentro casa. Esatto,
dentro casa, come fosse una cosa normale e senza darci nessun peso. Ci buttavamo
addosso secchiate di acqua tra le risa più spensierate. Ho provato una leggerezza
che poi raramente ho provato di nuovo dopo quel giorno.
Cosa
significa per te scrivere?
Io
scrivo da quando sono bambina. Da poco mia madre ha ritrovato un quaderno di quando
avevo dieci o undici anni dove avevo provato a scrivere il mio primo romanzo. Scrivere
è sempre stato il mio modo per fermarmi e analizzare me stessa e il mondo
intorno a me, insomma un’esigenza naturale che mi accompagna da sempre.
Hai altri progetti in cantiere?
Sì,
ho delle idee per un altro romanzo e per una raccolta di saggi brevi.
Grazie per aver
condiviso le tue riflessioni.
Grazie a te.
La scrittrice Roberta Zanzonico
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