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"Prima che sia troppo amarti" di Annalisa Teggi

    Il Timone editore, 2024, pagg. 188.   Incipit "Se l'era cercata. Diana correva al buio pensando ai commenti sul suo necrologio. Non staccava gli occhi dall'unica luce davanti a sé. Aperti h24, un'insegna così anonima di giorno. Arrivarci, presto. Sentiva ancora addosso il fiato di alcol e sudore. Una voce roca era rigurgitata fuori da un angolo della strada. Un'ombra viva, arrabbiata o isterica si era sollevata da terra spalancando le braccia verso di lei. Un forte colpo a terra e una risata cavernosa. La stava rincorrendo?  O era rimasto in quel cantuccio nero di marciapiede?".   Pensieri luminosi Nel vocabolario   la parola "troppo" è sia un avverbio che un aggettivo e in entrambi i casi la definiscono come una quantità eccessiva, qualcosa più  del dovuto, più del giusto.  In definitiva sia che lo si qualifichi come avverbio o aggettivo, "troppo" ha un connotazione negativa e lo si può affiancare allo spreco come quello alimentare; o...

"La foiba grande" di Carlo Sgorlon

 


Casa editrice Mondadori, 1992-2020, pagg.271.

 

Incipit

"La peste nera scoppiò molte volte nella nostra penisola, e si diffuse come olio, entrando nei vicoli dei paesi e delle città distese a prendere il sole sulle coste rocciose, facendo macello. I paesi restavano così vuoti che lo zoccolare dei sopravvissuti sulle vie lastricate sembrava l'ostinato camminare di un galeotto nei corridoi di una prigione. Quelli che se la cavavano parevano fantasmi, col mento nero di barba, spettinati e pidocchiosi".

 

Pensieri luminosi 

Il romanzo prende vita con un ricordo di morte: la peste nera che nella penisola istriana nel Seicento causò la dipartita di moltissime persone, tanto che ormai la popolazione decimata la si poteva definire come un gruppetto sparuto di individui. Da qui l'esigenza da parte del podestà di ripopolare quei luoghi. Attraverso ordini scritti, fatti recapitare in Turchia fino a Venezia, iniziarono ad arrivare  popoli diversi che avevano caratteristiche orientaleggianti, europee, slave, russe ed erano contadini, boscaioli e le donne robuste e conoscitrici di lunari e aborti, esperte di erbe e radici. Cominciarono a lavorare la terra fatta di pascoli, boschi di quercie, ulivi, acacie. Si insediarono nelle vecchie case ormai abbandonate. Molti di loro, in particolare romeni e dalmati furono invitati a stabilirsi ad Umizza, villaggio immaginario, presso il vallone di Lemme, con vicino una grande foiba. Con questa commistione di nazionalità e popoli diversi la vita ricominciò il suo corso, attraversata da canti balcanici e nenie istriane. I secoli passarono fino a quando una nuovo odore di morte si impossessò di Umizza: il paratifo che nei primi del Novecento portò via molte persone, tra cui anche Anna, moglie del misterioso ed enigmatico Benedetto Polo che, sorprese tutta la sua famiglia e gli abitanti di Umizza un giorno, quando dopo la fine della prima guerra mondiale, si imbarcò a Trieste alla volta degli Stati Uniti. 
Molti anni dopo, durante la seconda guerra mondiale, tornò improvvisamente  al paese con la sua arte di scultore. Negli Stati Uniti aveva trovato la sua dimensione artistica ma non umana e  sentiva l'esigenza di ritornare nella sua terra natia.
Il romanzo di Carlo Sgorlon ci parla di diverse tematiche che sono care all'individuo: la nostalgia, le radici, l'identità, il desiderio di trovare un posto  nel mondo.
Lo scrittore traccia, nella figura di Benedetto Polo, il simbolo di un uomo riflessivo, osservatore. Lui è l'uomo-continente che ha dentro di sè tutte le stratificazioni identitarie secolari della penisola istriana, così diversificata, multietnica, multirazziale. Egli con tenacia e creatività porta avanti il suo lavoro di scultore e impasta le sue opere con l'argilla di cui è composta e intrisa la  terra dalmata-istriana. Lo stesso forno per cuocere le statue, che avevano visi delle donne di confine, forti e robuste, viene rinvenuto fortuitamente sotto la terra natia.  
Così come è forte e robusta Vera, un personaggio importantissimo nella storia, un simbolo anche lei della vera, cristallina operosità della gente di quel luogo, che non si abbatte nell'avvicendarsi di conquistatori dapprima austriaci, italiani fascisti e poi partigiani comunisti.
Nelle pieghe di questi concetti si inserisce la storia del secondo conflitto  mondiale che in questi territori ha assunto dei risvolti anomali e quanto mai assurdi. La popolazione di Umizza, crogiuolo di tante identità, viene progressivamente messa all'angolo. Se gli italiani fascisti ne fecero un loro lontano possedimento da Roma e dai luoghi del potere, non tralasciarono però di usare la forza e un certo autoritarismo misto a confusione nell'imporre leggi e burocrazia.
Rimase un ultimo domino: quello dei partigiani comunisti che vollero fare propria la penisola istriana con la sua terra rossa, gialla, nera, i suoi boschi fitti e selvaggi e le sue foibe, dove sembra scorresse un fiume misterioso nelle profondità della terra. Quelle caverne sotterranee che lo stesso Benedetto aveva cercato di visitare, trovandoci dentro sfumature di luce dall'azzurro al rosa, al violetto al celeste, con le sue migliaia di stradine e incroci. Un universo nascosto che sottolinea ancora una volta quanto la terra faccia da calamita a quell'uomo misterioso ma tenace, guerriero e geloso dei suoi confini mentali e anche geologici. Aveva scoperto di avere anche un sosia, al contario di lui non uomo-continente ma uomo di mare, che come lui era artista di ceramiche. Ma forse non sono due uomini, ma lo stesso identico essere umano che ha dentro la terra e il mare al di là dell'Isonzo.
Sgorlon con raffinata poesia ci parla di questi uomini come lui, originario friulano che fa sentire anche la sua voce in questa vivenda  nel raccontare e raccontarsi della sua terra, perchè Benedetto, Vera, Vlado partigiano alla macchia, Frane che sogna una guerra idealizzata e colma di valori patriottici, Partenija vedova di un soldato del vecchio impero austro-ungarico e tanti altri personaggi fondendosi insieme diventano il libero pensare in un tempo, quello dopo l'armistizio, che si era ancor più incattivito. Le uccisioni e gli spari nel bosco un tempo denso di leggende diventava luogo di imboscate rosso sangue di un nazionalismo nuovo e le strade alla sera si facevano pericolose, ma Barba Michele da tutti considerato pazzo,   perchè le nipoti con i generi gli aveva rubato le sue terre, ci camminava senza paura. La vita era difficile; la gente spariva come nel nulla e il nulla sembrava non avere fine.
Benedetto attraverserà il dolore del popolo istraino-dalmata e del  suo esodo, in quella triste sopportazione che solo la gente di confine può sopportare. Tutti lo amano al paese, nonostante quel sentimento antitaliano inizi a strisciare perfidamente nelle menti di altri uomini, che vedevano nella stirpe italiana una minaccia da soffocare. Allora quella foiba silenziosa, umida, quasi pacifica e solo buona per buttare scarti di carne proveniente da macelli abusivi diventerà qualcosa di più utile per i seguaci di Tito. Una grande bocca senza denti ma profonda e silenziosa che ingoia il libero pensiero di chi si sentiva parte di un poliedrico rumore di voci con accenti diversi e variegati che piaceva all'anziana  Parternija che, quando rifletteva sulla vita o desiderava spiegare un concetto lo esprimeva in tre lingue: austriaco, italiano e slavo. Con gli efferati omicidi nelle foibe si è soffocata la voce del cuore, della ragione e dell'anima e ha fatto versare lacrime amare in quel mare Adriatico dolorossimo di ricordi,  avvolti nelle nebbie del destino.
Ci sono altre tantissime immagini e parole su cui riflettere in questo libro che lascio a voi scoprire, compresa anche l'interessante postfazione di Gianni Oliva.

 

La mia lampada ha illuminato questa frase:
"Non v'era ragione di svegliare odi assopiti e di svilupparli, e forse la verità più profonda e più vera era questa, che gli istriani non erano slavi, o italiani, o tedeschi, ma slavi, italiani e tedeschi insieme, e pure un po' romeni, dalmati, morlacchi, e altro ancora".
 
 
Gli oli essenziali da utilizzare durante la lettura:
tre gocce di rosmarino e tre gocce di rosa da sciogliere nel bruciatore di essenze con candela bianca neutra, per aprire la mente senza pregiudizi e riflettere sulla bellezza in tutte le sue sfumature.

 

Un po' di luce sull'autore
Carlo Sgorlon (Cassacco, 26 luglio 1930 - Udine, 25 dicembre 2009)  è stato uno scrittore e insegnante italiano. Trascorse la giovinezza in campagna, assimilando la cultura del Friuli rurale, che influenzerà i suoi scritti. A diciotto anni venne ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa con una tesi su Franz Kafka. Poi si trasferì in Germania per specializzarsi. Dopo ebbe inizio la sua carriera di insegnante di lettere e di scrittore Sposato con Edda Agarinis, visse tutto il resto della sua vita a Udine.  Morì il giorno di Natale e la moglie dopo la sua morte ha sempre promosso eventi e iniziative in sua memoria. Nel 2011 il comune di Raspano, frazione del suo comune di nascita, gli ha dedicato un concorso fotografico chiamato "Lo sguardo di Carlo".


Bibliografia essenziale
- "La poltrona" (1968);
- "La notte del ragno mannaro" (1970);
- "Il vento nel vigneto" (1973);
- "Il trono di legno"  premio Campiello (1973);
- "La conchiglia di Anataj"  premio Campiello (1983);
- "L'armata dei fiumi perduti"  premio Strega (1985);
- "La fontana di Lorena"  premio letterario Basilicata (1990);
- "Il patriarcato della luna" (1991);
- "Il filo di seta" (1999);
- "Il velo di Maya" (2006).


 
Lo scrittore Carlo Sgorlon

 

 Per l'acquisto del libro


 https://www.unilibro.it/libro/sgorlon-carlo/la-foiba-grande/9788804722977

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